Per una memoria postcoloniale condivisa
Cinemafrica – Leonardo De Franceschi | FCAAAL 2015
Uno dei veri, piccoli film-evento di questa edizione del venticinquennale, Asmarina di Alan Maglio e Medhin Paolos, è stato presentato in anteprima mondiale al FCAAAL di Milano, dopo essere stato oggetto di un panel nel corso di un convegno di studi postcoloniali all’Università di Padova tenutosi a febbraio. Chiunque pensasse però che si tratti di un lavoro accademico, destinato perlopiù a una platea di dotti cattedratici, è totalmente fuori strada, prova ne sia la folla plaudente di milanesi che si è riversata nelle sale, costringendo gli organizzatori a introdurre una seconda proiezione supplementare, in coda alla prima, e a mandare via decine di spettatori dalla terza, promossa da Naga, nota e meritoria associazione di volontariato di Milano.
Asmarina è prima di tutto un atto d’amore per una microcomunità, quella degli eritrei di Porta Venezia a Milano, con una memoria visiva che i due autori, attivi anche nella fotografia, hanno trovata fissata in Stranieri a Milano, un bellissimo libro pubblicato nel 1983, opera di Vito Scifo e Lalla Golderer, lungamente intervistati nel film e presenti in sala, gli occhi lucidi, insieme a diverse persone immortalate già nelle foto di Scifo di oltre trent’anni fa. Ma il film rappresenta anche il momento di fondazione di una memoria postcoloniale finalmente condivisa che unisce insieme tre paesi, Eritrea, Etiopia ed Italia e tre generazioni sospese in una sorta di andirivieni, ideale se non fisico, fra un paese d’origine e uno d’accoglienza.
Asmarina è la migliore dimostrazione di come il cinema del reale possa creare un’esperienza di condivisione non ambigua, profonda e non illusoria, solo al termine di un lungo processo di preparazione e trattamento dei materiali, durato in questo caso due anni. Specie quando la carne della storia e del presente è attraversata da ferite aperte che suscitano umori e risposte contrastanti. Il film riesce infatti a far dialogare miracolosamente le voci dissonanti di una platea molto eterogenea di soggetti.
E sì che i rischi di un’operazione problematica sul piano discorsivo c’erano tutti. Per esempio, quello di scivolare sul terreno di un memorialismo empatico che includesse ex-colonizzatori e ex-colonizzati in un abbraccio ambiguo, tale da far dimenticare le pagine buie di questa storia a due. Basti pensare alla canzone da cui sono partiti Alan e Medhin. Asmarina viene descritta agli autori come una canzone d’amore dedicata alla città da una delle figure chiave del film, Michele Lettiere, anziano figlio del colonialismo italiano in Eritrea, nato da una donna del luogo e da un pugliese mai conosciuto: Michele è vissuto in Eritrea fino a quando nel 1963 Haile Selassie ha annesso la regione, costringendo all’espatrio verso l’ex-madrepatria decine di cittadini meticci come lui; ritrovatosi come altri in un campo, dopo qualche mese è stato congedato con duecentomila lire – che ha speso subito per togliersi lo sfizio di andare a letto con una bianca – e nonostante più di cinquant’anni in Italia si sente eritreo e sogna di ritornare.
Messa immediatamente in rapporto, attraverso la vicenda dolorosa di Michele, con la storia dei meticci e quindi con l’immaginario sonoro delle faccette nere, trainato da varie canzonette del 1935-36 come Morettina e Africanina, la canzone torna ad essere evocata in un’altra sequenza che produce un intrigante cortocircuito transculturale e transcronico, quando vediamo Asmarina interpretata e ritradotta in tigrigno dal cantante eritreo Wedi Shawl (la ripresa è tratta da un concerto del 1989, visibile anche online: https://vimeo.com/122266781) e fatta ascoltare al fidanzato via cellulare da Anita, una delle ragazze di seconda generazione presenti nel film. Insomma, la canzone non solo non ha nulla a che spartire in senso cronologico col corpus canzonettistico della propaganda di regime (essendo stata scritta da Pippo Maugeri nel 1956 – anche se questo in verità il film non lo ricorda) ma è stata largamente riappropriata nel patrimonio popolare etiope ed eritreo, finendo tradotta anche in arabo e in amarico: ricordare tutto questo nel film ha un valore importante perché evoca il carattere non solo stratificato ma anche mobile dell’archivio postcoloniale, come patrimonio di narrazioni il cui significato viene continuamente rinegoziato da (e in funzione del) presente.
C’erano altri rischi in cui il film molto facilmente avrebbe potuto cadere: contribuire a diffondere l’idea che questa storia in fondo riguardi solo persone appartenenti alle prime generazioni di migranti, e quindi tener fuori ventenni e trentenni da questa operazione di ricostruzione memoriale. Ancora, dare ad intendere che riguardi solo migranti eritrei, dimenticando di ascoltare la voce di donne ed uomini venuti dall’Etiopia all’Italia e legati anch’essi da un vincolo storico indissolubile sia con i cugini habesha che con gli ex-colonizzatori. Per non dire della tentazione di dare al lavoro un taglio da reportage televisivo di seconda serata, con voce narrante autorevole e autoritaria, interviste statiche ai testimoni e robuste ma inerti iniezioni di repertorio, alla manière de La Storia siamo noi, per capirci.
Alan e Medhin hanno brillantemente saputo eludere queste trappole, anzitutto integrando in questo viaggio, come anticipato, almeno tre generazioni di donne ed uomini, eritrei, etiopi e italiani (o meglio italo-italiani, meticci e italiani d’Eritrea come la scrittrice Erminia Dell’Oro) e dando al film il registro di una rapsodia pop, in cui la sapiente scelta e imbricazione delle musiche (in cui è difficile non leggere il tocco di Medhin, ex esponente di Fiamma Fumana), a partire dall’acida e dissonante Kuj Kato dei titoli, dall’album Tayi Bebba di Cristiano Crisci aka Clap!Clap!, e talune scelte di scrittura (dall’insistenza metadiscorsiva sulle fotografie all’inserimento di passaggi da cinema strutturale, da inserti di film nel film alle riprese fatte da un ragazzino di terza generazione) nuociono gravemente alla salute di una memoria istituzionale e celebrativa.
La storia di Asmarina del resto, e il film lo dimostra abbondantemente, non solo riguarda tutte e tutti ma non è affatto storia chiusa. A tenerla aperta non è solo il necessario lavorio di riappropriazione e passaggio intergenerazionale che viene costantemente evocato ma soprattutto l’attenzione al presente. L’oggi parla attarverso le voci delle ventenni e dei trentenni, in particolare tre ragazze e un giovane arrivato da alcuni anni via mare dall’Eritrea impossibile di Isaias Afewerki. Le prime ci trasmettono l’energia e la speranza che deriva dalla conoscenza della loro storia personale e collettiva – fatta di riti familiari ma anche di narrazioni postcoloniali che parlano di bombardamenti, discriminazioni e deportazioni – ma anche dalla consapevolezza di essere parte di un processo che ha trasformato profondamente l’Eritrea, l’Etiopia e l’Italia stessa e rende possibile piccoli grandi sogni come quello di fare crescere il movimento del calcio femminile in Etiopia.
Dall’altra parte c’è, attraverso la testimonianza del ragazzo passato come migliaia di altri per il deserto e il mare, la distopia di uno dei Paesi più liberticidi al mondo, in cui donne ed uomini vivono in uno stato di perenne mobilitazione militare, sotto la sorveglianza delle spie di regime, costretti a sopravvivere in una nazione che non offre nessun futuro ai giovani, spara alle spalle di quanti continuano a fuggire per disperazione e tiene sotto ricatto persino gli espatriati. È da questa Eritrea che migliaia di ragazze e ragazzi fuggono ogni anno, ritrovandosi per le strade delle capitali d’Europa e d’America per protestare ed è con questo regime che l’Italia e l’Europa tutta stanno negoziando nel quadro di una serie di accordi tesi a consolidare le sciagurate politiche proibizioniste che hanno trasformato il Mediterraneo in un cimitero e il Nordafrica in un’interminabile fascia frontaliera dello spazio Schengen.